Il testo (ridotto) è ricavato da “Una pagina al giorno” di Daniele Conventi.
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Noi non possiamo morire
Quarto episodio
Avanziamo nel deserto con fatica. Il calore ci fa perdere la poca acqua che abbiamo ancora in corpo. Il fiato è pesante. E’ difficile respirare. Crollo a terra, poggiando un ginocchio sul terreno secco e rovente.
Giulia continua a camminare con passo dondolante. Dopo un po’ si ferma, si gira verso di me. Si accorge che sono a terra.
Giulia si avvicina e mi porge la mano. Mi aiuta ad alzarmi, ma anche lei sta tremando, esausta.
Appena mi sollevo, un giramento di testa mi ributta giù a terra. Un conato di vomito mi stringe lo stomaco e la gola. Tossisco. Non ho neanche saliva sufficiente da poterla sputare.
<< Riposiamoci…>> le chiedo quando gli spasmi sembrano essere passati <<… ti prego>>.
Non le ho mai insegnato il significato di “riposarsi”, ma intuisce comunque. Si siede davanti a me, lentamente. Le sue ossa sono così gracili da sembrare che possano spezzarsi da un momento all’altro.
Giulia scruta il cielo. Cerca di orientarsi. Come unica bussola abbiamo il sole. All’alba, lo strato grigio di smog si illumina debolmente diffondendo la luce da una direzione precisa, e così al tramonto, quando l’oscurità inghiotte la luce, lasciando un’unica oasi di chiarore. Adesso, però, non è ne l’alba ne il tramonto. La luce è diffusa ma non si vede il sole. Solo un cielo grigio e uniforme che copre una piana di terra secca.
Giulia è immobile, seduta a scrutare il cielo, come se vedesse qualcosa.
<< E’ inutile. Stiamo girando intorno.>> cerco di dirle con voce rauca e stanca << Dannata te e quando ho deciso di seguirti>>.
Lei non fa caso alle parole. Sono solo rumori di sottofondo senza senso. Il suo sguardo è puntato in una direzione. Mi avvicino, strisciando. Sta fissando la linea dell’orizzonte, interessata a qualcosa. Io non vedo niente, quanto vorrei riavere i miei occhiali.
Si gira verso di me e mi indica un punto, io non vedo nulla. Mi fa il gesto di seguirla, si alza e riprende a camminare.
Al secondo tentativo tento di rialzarmi. Lei mi da di nuovo una mano e stavolta ci riesco. Riprendiamo il cammino.
Dopo dieci minuti, in fondo alla mia visuale emergono delle montagnole. Sembrano fatte di pietre. Non sembrano così lontane da poter essere più grandi di tre metri, forse.
Ci avviciniamo, le montagnole diventano mucchi di pietre, poste una sull’altra. Sembrano ciottoli. Sembrano compatti, coperti in parte dalla sabbia.
Il vento soffia forte e graffia la pelle, ma i cumuli di pietre non sembrano muoversi. Da quanto tempo sono li? Come è possibile che non siano ancora crollati?
Giulia sembra più allarmata di me. Anche lei ha capito che lì c’è qualcuno. Noi siamo allo scoperto, in mezzo al nulla. Mi prende per un braccio e mi tira indietro. Vuole che ci allontaniamo. La seguo.
Anche questa notte la passiamo all’addiaccio. Non ci sono posti dove poterci nascondere. Ne grotte, ne semplici rientranze nella roccia. Scavare una buca è da folli. La terra è così debole da rendere ogni buca una bara di fango alla prima goccia di pioggia.
Una fitta pioggia ci inzuppa ogni centimetro di corpo. Il tocco è leggero, ma continuo, incessante. Non vedo a un palmo di naso e il silenzio è riempito da un sottile suono di sottofondo di acqua battente. Il nostro letto è una sporgenza rocciosa nel terreno. Sembra un pezzo di fondamenta di qualche costruzione. Forse qualche vecchio castello, o qualcuno dei palazzi dei tempi della guerra. Per come è ridotto non ne sono sicuro. Nonostante la pioggia, non fa freddo. Possiamo bere a volontà, ci basta aprire la bocca.
Il sonno è agitato. Mi sveglio di frequente tormentato da incubi. Ogni volta che apro gli occhi, trovo Giulia sveglia, raggomitolata in posizione fetale nel vano tentativo di coprirsi. Piove. Sembra non smettere mai. Un tocco costante, un suono costante, talmente continuo da potersi quasi abituare.
Suoni di passi nel fango. Suoni veloci anche se irregolari.
Ciak, ciak, ciak, ciak.
Apro gli occhi. Giulia è in piedi. Ha la sua arma in mano, dove l’ha sempre tenuta. Sta cercando di vedere, di capire da dove provenga la fonte.
Mi alzo, cerco la mia arma (dove l’ho lasciata?). Era sulla roccia ma deve essere caduta.
Ciak, ciak, ciak,ciak.
Il suono è più vicino. Continuo a cercare l’arma, la trovo immersa nel fango, in una pozza profonda una ventina di centimetri.
E’ una sola persona. La pioggia non copre il suono del suo respiro. E’ affannato, spaventato. Credo stia scappando da qualcosa.
Mi muovo, pronto a colpire, ma Giulia mi posa una mano sulla bocca. Non vuole rumori. Non ne sento il respiro. Lo sta trattenendo. Lo trattengo anch’io.
I passi ci raggiungono, ci sorpassano. Non si è accorto di noi. La luce, praticamente inesistente, e la continua pioggia ci hanno resi invisibili. Giulia mi ha fermato dal fare rumori perché ci avrebbe potuto individuare.
Rimaniamo immobili qualcosa come un minuto, poi abbasso lentamente la mano, infangata, con ancora l’arma stretta in pugno e riprendo aria.
<< Pericolo?>> le chiedo per vedere se anche lei ha la mia stessa sensazione.
<<Si. Pericolo>> conferma.
Ci rimettiamo in marcia, mano nella mano per non rischiare di separarci. Andiamo lenti. La terra intorno a noi è diventata un’unica pozza di fango immensa. Ogni passo è un tormento. Ci affidiamo all’istinto e alla memoria cercando di andare sempre dritti, nella direzione in cui si è diretto l’uomo che correva. Non possiamo fare a meno di fare rumore.
Nonostante tutti gli sforzi, non siamo minimamente veloci. Tutto intorno a noi è buio e la visibilità è praticamente zero. Quasi non vedo la mano di Giulia che stringe la mia. Ma mi sento osservato. Qualcosa, qualcuno ci osserva. Mi giro a guardare. Di scatto. Dietro, avanti, di fianco. Un buco nero. Solo l’udito mi è d’aiuto. Sento solo pioggia. Sento solo i nostri passi. Sento solo…
Ciak.
Un suono, leggero, solitario. E’ un passo, ma non è nostro. Giulia continua a correre. Non la fermo. Se l’ho sentito io quel passo, lei cosa è riuscita a sentire?
– Ciak.
Giulia mi tira, cambiamo direzione.
Ciak.
Un altro cambio improvviso.
Ciak.
Anche li è bloccato. Dobbiamo tornare indietr…
Ciak.
Anche dietro è bloccato.
Ciak, ciak, ciak, ciak, ciak, ciak.
Suono di passi nel fango ci circonda. Ha un ritmo musicale, come di tamburo.
Ci mettiamo schiena contro schiena, cercando di intravedere chi ci ha teso la trappola.
D’improvviso un canto gutturale esplode tra le fila dei nostri aggressori. Un segno di derisione, forse di vittoria.
I loro canti, mescolati con il suono di pioggia, sembrano scaturire da gole mostruose.
<< I mostri ridono>> commento a mezza bocca stringendo la mia arma con la mano libera .
Ne sono sicuro. Abbiamo sentito solo pochi passi. Poche voci. Forse ci vogliono solo far credere di averci circondati.
Cerco di capire da dove provengano le voci. Ne sento cinque. Non sono così vicini da poter essere afferrati. Non ci stanno serrando stretti. Si sono posizionati larghi. Abbastanza da lasciare zone di vuoto.
Stringo la mano di Giulia.
<< Andiamo>> le dico.
<< Andiamo>> mi risponde risoluta.
Scattiamo all’improvviso buttando fuori tutta l’energia che ci rimane. Il fango e la fatica ci rendono lenti, ma dubito che loro possano essere tanto più veloci.
Dieci metri. Dieci metri è quanto riusciamo a percorrere, prima che qualcosa ci colpisca in pieno. L’impatto è forte e senza accorgercene ci ritroviamo a terra, mano sciolta. So che Giulia non è lontana solo perché ho sentito il suo corpo impattare con il fango.
Sono stato colpito al petto da qualcosa che assomigliava a un bastone, ma non ho il tempo di capire altro prima di sentire un secondo colpo abbattersi sulla mia gambe. Poi un terzo, un quarto.
Non gli diamo la soddisfazione di urlare di dolore.
Sento i loro passi. Qualcuno si avvicina, altri si allontanano. Ci stanno rimettendo al centro.
Come sono arrivate, così le percosse smettono da un momento all’altro. Cala il silenzio. Non ho idea di quanti danni io abbia, ma riesco a strisciare a stento.
Un suono di vento. Qualcosa ha attraversato l’aria, infranto la pioggia e sprofondata nel fango. Un secondo suono. Poi un terzo. Poi aumentano. Qualcosa mi colpisce un fianco. Qualcos’altro mi atterra vicino. Pietre.
I colpi si fanno sempre più fitti e mi arrivano addosso. Il sapore metallico del sangue mi arriva alla bocca. Sento diverse ossa rompersi. Una pietra mi colpisce sul volto, facendomi saltare un dente e lasciandomi stordito. Sento Giulia urlare, poi un sasso mi prende in testa. Sento il rumore delle ossa del cranio che si frantumano. Buio.
fffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffff
L’ha ribloggato su Daniele Conventi edizioni.
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