Il testo (ridotto) è ricavato da “Una pagina al giorno” di Daniele Conventi
……………………………………………………………………………………………
Noi non possiamo morire
Secondo episodio
Sono passate un paio d’ore da quando ho incontrato la ragazza. Lei è distesa a terra, svenuta. Io faccio la guardia all’entrata della grotta.
Per nostra fortuna i quattro erano persone impazzite e dedite solo agli istinti più primordiali. Non hanno sensi sviluppati, ne zanne particolarmente affilate, ma solo fame.
Non ci hanno messo molto a svegliarsi. Le ferite si sono rimarginate in una decina di minuti. Tre di loro si sono alzati e hanno avuto il tempo di capire cosa fosse successo. Il quarto non è stato così fortunato. Ripresosi più lentamente degli altri, è stato divorato dai suoi compagni. Ho sentito le sue urla fin nel fondo della grotta.
Appoggiato a una parete, corpo nudo su roccia nuda, osservo il vuoto desolante che è il mio mondo. Sento la ragazza avvicinarsi.
<< Stai bene?>> le chiedo.
Non dice niente, nessun cenno. Si allontana di qualche passo, sempre rimanendo appoggiata alla parete.
Faccio un passo verso di lei, ma indietreggia. Un moto di rabbia mi travolge, ma mi trattengo. << Non è colpa sua>> sussurro a me stesso. Lascio stare. Facesse come vuole. Mi siedo sul bordo della grotta, stanco. Guardo un attimo fuori, poi mi addormento.
Mi sveglio di soprassalto. Ho avuto un sonno agitato. Al mio risveglio mi sento scoppiare la testa e qualcosa che mi tocca.
Lei si è seduta affianco a me senza dire una parola. Mi guarda. La sua mano mi passa sul petto, spostando la massa di peli grigi che lo ricopre.
Si sofferma sulla mia spalla destra. Dove sono stato morso. L’unico segno rimasto è una cicatrice sbiadita, appena visibile. È quella che la stranisce.
La sua, di spalla, è perfetta. Perfetta quanto possa esserlo la spalla di una ragazza fatta, praticamente, di solo ossa. Non una cicatrice, non un segno.
<<Come ti chiami?>> le chiedo, ma non capisce.
Mi stendo sulla roccia appoggiando la testa sul punto più comodo che riesco a trovare.
<<Io mi chiamo Angelo >> e dicendo questo mi indico battendo la mano sul mio petto << tu come ti chiami?>>. Alla domanda la indico, sperando che capisca.
Scuote la testa in segno negativo. << Facciamo così>> le dico << da adesso in poi ti chiamerò Giulia. Meglio di ragazza, almeno>>.
Mi guarda stranita. Si batte il petto come a domandarsi se stia parlando di lei.
<< Tu>> la indico per farle capire il concetto << Giulia>>.
<< Giulia>> mi risponde battendosi l’esile mano sul petto ossuto.
La sua voce è roca e stanca, ma continua a ripetere il suo nome come se fosse una bella musica da riascoltare.
<< Hai sete?>> le domando facendo il gesto di bere da un bicchiere. Non capisce. Non sa cosa sia un bicchiere.
<< Hai…>> la indico <<sete?>> e imito il bere da una pozza.
Mi fa un cenno di si con la testa, scuotendo la massa di capelli secchi che le riempie il cranio. Mi alzo e le faccio un cenno di seguirmi. Mi segue.
Conosco la grotta. È da qualche giorno che sono qui. È piuttosto ampia e profonda, in alcuni tratti labirintica. Indico alla ragazza di camminare con la mano destra poggiata sulla parete. Ci aspetta il buio più profondo e sono secoli che non c’è più modo di fare il fuoco.
Mano a mano che ci addentriamo nei punti più remoti della grotta, l’aria si fa più umida e le pareti più fredde. Sento il suono di acqua che scorre, segno che stiamo andando nella giusta direzione.
<< Di qua. Siamo quasi arrivati>>.
Quando raggiungiamo la pozza, è la prima a servirsi. Lo fa a piene mani, servendosi senza riserbo del fresco liquido mineralizzato. Sento lo stomaco della ragazza lamentarsi della fame.
Quando tocca a me servirmi, lei si sposta di lato e mi fa passare. Il sapore di quest’acqua non è una novità, per me. Sono giorni che mi sono rifugiato qui. Bevo con più calma, assaporando ogni goccia. Anche il mio stomaco rumoreggia lamentandosi del misero riempitivo, ma io non mi lamento.
Dopo qualche minuto, sento Giulia lamentarsi. Lo fa con versi gutturali, privi di significato. È solo un richiamo.
<< Che c’è?>> le chiedo.
Lei mi prende una mano e me la poggia su un suo braccio. La pelle è fredda, quasi ghiaccio. Sta tremando.
<< Hai freddo?>> le chiedo.
<< Freddo>> mi risponde << freddo>> mentre si strofina la pelle.
<< D’accordo. Allora risaliamo>>.
Sospirando, prendo per mano Giulia e, così come siamo scesi, lentamente risaliamo.
Nei giorni successivi ci alterniamo nei turni per ogni cosa, facendo in modo che ci sia sempre qualcuno a guardia. Sappiamo bene entrambe che, per quanto il paesaggio possa essere desolato, non è privo di minacce.
Quando lei è di guardia, la noto armeggiare con un paio di pietre.
<< Che stai facendo?>> le chiedo dopo qualche giorno.
Una delle due pietre, una roccia grande quanto la sua mano, presenta una punta la dove è stata sfregata.
<< Ma è un’arma!>>. È rozza, rotta in più punti ma sembra poter svolgere egregiamente il suo lavoro.
<< Arma >> ripete lei mentre mima l’atto di colpire qualcosa.
Ne avevo una simile, ma l’ho persa nel conflitto con i folli.
<< Ci sarà molto utile>> le dico mentre le mostro il pollice in su.
Lei mi guarda, perplessa, poi imita il mio segno con un sorriso, mentre io mi affianco a lei e inizio a levigare un’altra pietra. Due armi sono meglio di una.
ffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffff
L’ha ribloggato su Daniele Conventi edizionie ha commentato:
Il secondo “episodio” ad opera di Dino Rotoli basato sul mio “Noi non possiamo morire” pubblicato su “una pagina al giorno.
Pingback: Elenco racconti | disegnare da adulti